Editore: Hacca 2010
Autore: DIEGO ZANDEL
Data Pubblicazione: 23/11/2010
PUBBLICHIAMO UN CAPITOLO DEL ROMANZO
Aveva trovato Paraskevì china su una tomba mentre
puliva il marmo con uno straccio. Errico aveva notato
che non era di un italiano. Era una grande tomba
recente, dei primi anni Novanta, con le foto di una
donna e di tre bambini, tutti senza nome.
«A chi appartiene? A italiani di qui?» aveva domandato
Errico.
«No, poverina, l’hanno trovata in mare. Fuggiva
dalla Turchia in barca, con i figli piccolini. Li hanno
trovati morti sulla spiaggia».
«Era una profuga curda, allora» aveva supposto
Errico.
«Sì, così dice la polizia. Ce ne sono tanti che arrivano
di là. Il comune ha pagato la tomba, mettendo
i loro corpi insieme, la madre con i suoi figli».
«La tragedia li ha uniti per sempre» aveva commentato
Errico e, indicando il monumento ai caduti di
Linopoti, aveva aggiunto: «Come quei soldati. Speravo
di trovarla per andare a vedere dove sono stati uccisi.
Può adesso?»
«Sì, volentieri, cosa altro avrei da fare?»
Erano usciti dal cimitero e saliti in macchina. Il
sole faceva capolino tra candide nubi, grandi e veloci. Il
tempo stava ancora cambiando. Solo il vento sembrava
non mutare mai. Ben presto avevano abbandonato la
strada principale per prenderne un’altra, stretta, tra i
campi. Vedevano gli alberi piegarsi e il mare, vicino,
spumeggiare. Dopo aver raggiunto gli alberghi chiusi
di Tingaki avevano deviato per Marmari. Neppure a
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metà strada avevano imboccato una carreggiata sterrata,
molto sassosa.
Alla loro sinistra si incominciava a intravvedere
un canneto paludoso.
«È quello il luogo?» aveva indicato Errico.
Paraskevi aveva annuito.
«Ora stiamo facendo la stessa loro strada. Pensa a
quante cose lasciavano dietro di sé quei poveri soldati
quando passarono di qui. Erano in fila, legati l’uno
all’altro. I tedeschi avevano detto che li portavano sulle
motozattere per imbarcarli sulle navi al largo. Invece…
Ma sapevano, sentivano, che li avrebbero ammazzati. C’è
un momento in cui si capisce che stai per morire».
Errico aveva rallentato, quasi volesse accompagnare
il passo dei soldati invisibili dei quali sentiva in quel
momento, forte, la presenza su quella strada. Non parlava
più. Si era reso conto che Paraskevì era affascinata
dalla morte. Le ore che trascorreva al camposanto, quei
colloqui con i defunti. E pure Errico aveva dovuto riconoscerlo,
i morti ci parlano. Lo sentiva anche lui su
quella strada. E provava tutto l’orrore che doveva aver
provato suo padre quando aveva saputo della strage. Non
c’era forse, in quel momento, anche suo padre accanto
a lui? E c’era perché lo aveva cercato. Anzi, lo stava
cercando più di quanto aveva fatto in vita. Perché? E
non aveva trovato che una risposta: perché in vita aveva
perso tutte le occasioni per farlo.
Improvvisamente si era domandato: non era, questo,
un rischio che correva un po’ con tutte le persone
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che amava? Sua figlia Costanza, suo nipote Emilio, ma
soprattutto Sara? Mai gli era stata così presente come
in quei giorni. Capiva che il suo rapporto con Soula
metteva in discussione tutto. Ma era troppo presto,
ancora, per darsi una risposta.
«Fermati qui!» aveva detto Paraskevì.
Errico aveva obbedito. Erano scesi dalla macchina
e avevano preso ad attraversare un campo, tra l’erba alta
che il vento piegava. Paraskevì si era stretta il fazzoletto
sotto il mento. Le nubi, a tratti, oscuravano il sole,
gettando un’ombra grigia e improvvisamente triste sulla
terra. Alla loro sinistra c’erano delle arnie. In fondo,
il rudere di una piccola stalla, forse il luogo in cui il
contadino s’era nascosto e aveva visto passare la colonna
dei prigionieri. Intorno, un paesaggio spoglio, tranne
che per un paio di alberi, tra cui una grande quercia,
al limite del campo. Poi cominciava la salina, colma
d’acqua piovana. Di là da essa s’intravedeva il mare,
un nastro di un azzurro livido e spumeggiante tra la
spiaggia e l’isola di Pserimos. Soula e lui là, solo ieri,
due corpi in cerca di vita. Di qua gli aliti della morte.
I passi strascicati sul terreno. Gli ufficiali italiani in
fila, gli occhi bassi, impauriti, qualcuno, più orgoglioso,
dallo sguardo dritto e di sfida. Si erano inoltrati
là dove Errico e Paraskevì stavano mettendo il piede.
Il canneto, il maledetto acquitrino, era là davanti a
loro, uguale a quella sera del 5 ottobre 1943. Le canne
ondeggiavano al vento fino a piegarsi. Errico aveva
allungato lo sguardo, con un tremore interiore. C’erano
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dei corpi lì in mezzo, degli uomini. Gli erano apparsi
improvvisamente, per pochi secondi. Si chiamavano
Leggio Felice, Pizzicaroli Luigi, Somaini Giovanni,
Scotti Emilio, Caruso Guseppe, Bianca Ennio, Zaddei
Carlo, D’Orsi Gaetano… Il sole stava tramontando
quando gli ufficiali a scaglioni erano stati fatti avviare
verso quella zona. Un tramonto bellissimo, che infuocava
il cielo. La fine di un giorno che segnava la fine
di centotre vite umane innocenti. Nessuna Convenzione
di Ginevra li tutelava. Li aspettava solo uno spirito di
brutale vendetta, quello che animava il tenente generale
Friedrich Wilhelm Müller. I tedeschi, ai loro fianchi
e dietro, con le dita sul grilletto degli Scheissmeisser
aspettavano solo di ricevere l’ordine di sparare. Avevano
lasciato il castello di Kos per accompagnare i centotre
ufficiali italiani sapendo a quale destino li conducevano.
Poi Müller aveva gridato. Una parola sola.
«FEUER!»
E gli Scheissmeisser avevano crepitato, a lungo,
tra le grida, i pianti, le invocazioni di aiuto, il nome
dei propri cari, lontani, in Italia, sulle labbra, nel cuore…
Silenzio.
Solo la voce di Paraskevì lo aveva interrotto a un
certo momento.
«Müller è stato giustiziato come criminale di
guerra» aveva detto «Ci hanno pensato i greci!»